Hicham musulmano con un cuore di cristiano
Il padre che ha donato il cuore di suo figlio e che gli ha salvato la vita non ha voluto sapere di quale religione o colore fosse: «Me l’ha dato e basta».
Lo dice con commozione
Hicham Ben Mbarek
, per tutti gli amici solo Ben, musulmano e fiorentino, arrivato dal Marocco quando era piccolo su un barcone: «Sono orgoglioso che dentro di me ora batta un cuore cristiano», dice mentre parla della sua storia. Una storia di integrazione, un lavoro come stilista, un figlio che porta il nome del suo migliore amico fiorentino, un altro in arrivo che si chiamerà Francesco e una compagna «che veste come le pare».
La storia
Il 1 gennaio 2011 Hicham sta giocando a pallone con la sua squadra amatoriale sul campo di Ponte a Greve: l’ultima corsa e poi stramazza al suolo. È il suo cuore, pochi giorni dopo la visita medico sportiva, che lo tradisce. Sette attacchi cardiaci e i battiti che schizzano a oltre trecento al minuto. La corsa al vicino ospedale di Torregalli, un salvataggio miracoloso e una diagnosi gravissima: miocardiopatia dilatativa.
L’unico modo per salvare Hicham è un cuore nuovo, un trapianto che però sembra non arrivare. Sette mesi dopo, quando tutto sembra perduto, arriva la telefonata di Matteo, il suo migliore amico: «Hicham, mettiti il pigiama che dobbiamo correre all’ospedale di Siena: là c’è un cuore per te». Quello di un cattolico che ha salvato la vita ad un musulmano e che Ben ricorda sempre.
«L’emozione di rinascere a trent’anni è indescrivibile. Sono ancora vivo. E dentro di me batte il cuore di un cristiano. Questo è l’esempio più bello d’integrazione. La mia storia dimostra che le differenze non esistono. Questa è l’importanza del dono. E se avessi la possibilità di aiutare qualcuno, beh, lo farei con chiunque. A prescindere dall’etnia, dalla religione o dal colore della sua pelle»
«Il terrore si combatte insieme»
Quando ha saputo della strage di Parigi alla redazione di
Charlie Hebdo
, Ben si è sentito triste e indifeso come tutti, ma è rimasto colpito anche dai commenti sui social network quelli che raccontano di come un atto terroristico possa far fare un passo indietro alla nostra società: «C’è chi dice che l’integrazione non è possibile e che non siamo tutti uguali. Credo invece che tutti insieme possiamo dimostrare che si può vivere in pace, che dobbiamo tutti impegnarci per dimenticare secoli di tensioni create in nome della religione ma che con la religione non c’entrano niente».
Perché oltre all’orrore la strage di Parigi rischia di lasciare uno strascico di problemi a chi «vive tutti i giorni insieme, che veniamo da un Paese o da un altro, di una religione o di un’altra. Il terrore si combatte insieme, insegnando il rispetto e la tolleranza per il nostro futuro».
Qui il suo video di qualche anno fa con la sua testimonianza: